
Anatomia dello sguardo, o profanazioni della luna
Lo sappiamo, il cinema ha conquistato la luna ben prima della scienza. Una topografia sui generis non dissimile all’ariosteo globo dove recuperare il senno perduto sulla terra. Si pensi al luogo originario del Voyage di Méliés e alla trasfigurazione alchemica dello sguardo in Un Chien Andalou. In entrambi i casi la luna – l’oggetto par exellence di inquisizione metafisica dei poeti – è il correlativo oggettivo dello sguardo: uno sguardo espanso, esteso, sovrabbondante che d’emblée, come un proiettile affusolato, si conficca accecandolo nel pallido globo lunare; uno sguardo mutilato, animale, selvaggio che «potrebbe essere avvicinato al filo della lama» - Bataille docet. Insomma, la possibilità della visione e la sua radicale profanazione sembrerebbero coesistere, se non addirittura reciprocamente implicarsi. Solo perché è possibile stracciare - quasi sventrare - lo schermo che qualcosa come uno schermo – se non addirittura il cinema - è possibile: come ci ricorda Agamben, in Welles, si può rivelare qualcosa come la verità del cinema soltanto nel momento in cui Don Chisciotte infastidito da ciò che vede sullo schermo alzandosi in piedi, sguainando la spada, e precipitandosi contro lo schermo lacera la tela - «quando, alla fine» le immagini «si rivelano vuote, inesaudite» e «mostrano il nulla di cui sono fatte».

Non diversamente – in ordine sparso - Paolo Gioli in Quando l’occhio trema ampliando, vivisezionando e ricucendo lo strappo originario; Ferrara in The Driller Killer, nel solco di Bunuel, aprendo una ferita più «larga e profonda»; Monteiro in Vai e vem seguendo l’intuizione – che era stata anche di Bataille – di una segreta intimità fra l’occhio e il retto anale; in Powell ed Argento istituendo, definitivamente, l’identità inscindibile fra oggetto e soggetto della visione - in Argento e in Powell fra la lama e la macchina da presa, il regista e lo spettatore non c’è relazione: sono una cosa sola, semplice e senza redenzione.

A latere di questa storia, inascoltato e quasi invisibile, un film per molti indigeribile eppure essenziale: Der Goldene Handschuh (Il mostro di St. Pauli) di Fatih Akin. Presentato in concorso alla Berlinale nel 2019, inavvertitamente scambiato per un revival – per molti, anche, di cattivo gusto – dell’osmosi di guardante e guardato, vittima e carnefice inaugurata da Peeping Tom, il film di Faith Akin ne smonta i presupposti. Con Der Goldene Handschuh siamo in tutt’altra storia (del cinema): non una storia originale, ma un altro modo - questo sì, davvero originale – di raccontare la stessa storia – quella di Méliés e di Bunuel. A riprova del fatto che le immagini – come voleva Deleuze - sono indicibili – meglio, inesauribili - l’occhio reciso della luna/bue e l’occhio violato della luna nel Voyage non smettono, aprés coup, la loro capacità figurale.

Tuttavia, a ben vedere, il passo è stato già da sempre preparato. Nel gesto – che è il gesto, anche, di Svankmajer e di Aristakisjan – che viola la visione e istituisce ed impone – quasi presuppone – la cecità come conditio sine qua non della visione qualcosa rimane non (ancora) visto. La complicità, insolubile e irredimibile, di spettacolo e orrore in Argento è, da sempre, anche, la possibilità di un’angheria insopportabile: che l’occhio, oltre che co-carnefice, sia co-vittima. Assieme carnefice e vittima la visione si dischiude - già a partire dal Voyage e da Un Chien Andalou - come profanazione della luna e come luna profanata, violazione dello sguardo esguardo violato.
Der Goldene Handschuh cambia la prospettiva. Non più - come in Powell – sguardo della violazione dello sguardo, ma questo sguardo violato. Non più, insomma, l’identificazione complice e morbosa dello sguardo con il suo carnefice ma un’umanissima, e perciò insopportabile, storia di sguardi martoriati. Ancora, non la cecità come adito al cinema, ma questo sguardo fatto a pezzi: lo sguardo delle vittime, o se volete, per la prima volta, the dark side of the moon.
